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Divagazioni sulla mostra di Donatello Mancusi

Ho dovuto aspettare qualche giorno per trovare il bandolo delle emozioni e dei pensieri che mi hanno attivato le foto che Donatello Mancusi ha esposto alle “Buone voglie”. Mi è già successo in passato, (per esempio, con le serie di Alberto Tretti sull’Ospedale Psichiatrico abbandonato, o più recentemente il portfolio presentato nel sito da Marco Fogarolo, per citare i primi che mi vengono in mente); e in questi casi ho notato che trasformare in qualcosa di scritto quello che i neuroni processano mi aiuta a dare un senso a quello a cui ho partecipato.
Le foto di Mancusi, a me sembra inducano una serie di riflessioni a vari livelli (dell’autore, di chi le osserva quindi se stessi e la propria concezione di sessualità, e a livello della città e della cultura entro cui si è inseriti). In questa matassa di associazioni ho provato a dipanare qualche pensiero:

Livello 1: l’autore.
Mi piace pensare che non sia del tutto casuale che all’interno del suo più ampio lavoro definito da Mancusi “fotografia istintiva”, uno dei primi distillati sia questo: quasi che l’istinto fotografico si sia tradotto in una riflessione sugli istinti primordiali dell’uomo, ossia sulla sessualità, sulla molla che spinge alla ricerca dell’altro (per la sopravvivenza della specie, se non altro…). Di queste tensioni i manichini documentano l’evoluzione culturale delle modalità di comunicare disponibilità, di attivare fantasie e stimolare l’eccitazione, su alcuni elementi della grammatica del gioco della seduzione.
Tra questi mancano gli sguardi, a rimarcare il primato del linguaggio del corpo; emblematica è la foto dove c’è solo il volto di un manichino, ma è un volto appena definito nei tratti, quasi coperto da un tessuto come a simboleggiare che il tempo delle occhiate e degli ammiccamenti sia definitivamente accantonato.
Da punto di vista formale, l’uso del bianco e nero e il taglio delle inquadrature evidenziano i riferimenti culturali

© Donatello Mancusi 2012
Vetrina in allestimento #12# © Donatello Mancusi 2012

dell’autore, che fa tesoro delle lezioni di Klein e Moriyama, e propone una selezione coerente di immagini, che diventano un racconto moderno e non banale di uno dei tratti caratteristici della nostra società.

 

Livello 2: l’osservatore.
La foto delle ginocchia in primo piano è quella che subito mi sbalestra; si resta lì ad osservarla e forse ti aspetti (e speri per un attimo) che non sia un manichino: tiri un sospiro di sollievo (per l’imbarazzante conflitto superato…è un manichino, peccato?!).
Alcune foto trasudano sensualità, sono immagini raffinatissime e la mostra tiene l’osservatore su un sottile equilibrio, qualcuno ha detto ambiguità: si può parlare di erotismo senza cozzare con l’idea “politically correct” di donna moderna affrancata da certi canoni? Oppure che l’attivare fantasie, forse poco “progressiste”, resta uno dei misteri e dei lati piacevoli della vita e dell’incontro tra i sessi?
Certo, siamo molto lontani dalla fotografia glamour, ma forse non così tanto…almeno per l’osservatore maschile.
Le donne troveranno conferma dell’immaginario maschile (il fotografo è un maschio) ma anche un itinerario tangenziale sulla femminilità, che potremmo sintetizzare in una canzone di Battiato, ondeggiante “tra sesso e castità”.

Livello 3: la città e la società
Quindi le fotografie raccontano come si è cristallizzata la questione della sessualità, quasi una ossessione di cui la città è intrisa, indotta dai mezzi di comunicazione (riviste, televisione, internet, ecc.) di cui le vetrine dei negozi sono uno dei terminali, nei quali trovare le risposte ai modelli proposti dai media. L’autore offre immagini per poter proiettare le proprie visioni, a confrontarle con la concezione collettiva che le vetrine sembrano proporre.
Allora la mostra diventa la sintesi del pensiero maschile, ondivago tra una sorta di “distacco” dall’idea di donne mercificate e il bisogno di quelle immagini; di un erotismo raffinato, ora condannato (mai più donne oggetto) ora esaltato (una sessualità ovunque e dove tutto è consentito).

Alla fine, quando esci dalla mostra dentro ti resta un’inquietudine: le foto, come per esempio quelle nelle quali i manichini sono dietro alle saracinesche, non sai più se sono una metafora abbastanza scontata della condizione della donna (che in qualche modo potremmo sintetizzare come schiave di un ideale maschile), o se dietro le sbarre ci sia finita un’idea impossibile di desiderio, affannosa rincorsa di un maschio in crisi.

Le foto di Luigi Sacchetto

Luigi Sacchetto: un omaggio ad un maestro della fotografia

Tra le foto presentate da Luigi Sacchetto martedì 24 aprile, mi ha molto colpito la serie di fotografie di omaggio a Mario Lasalandra. E’ stato un tuffarsi improvvisamente in un altro tempo (forse fine anni 60 ? Mi ha ricordato Blow Up di Antonioni), in una sorta di curioso gioco di rinvii e rimpianti.
Nella serie, secondo me, i ritratti scattati a Mario sono struggenti, intensi, in qualche modo anche sereni, certamente risultato non solo di una evidente non comune capacità di composizione; e poi hanno come soggetto Lasalandra che sta fotografando un anziano contadino: l’insieme della proiezione è diventata una specie di meta-lettura del rimpianto, analogamente a uno dei recenti film di Woody Allen, (quello ambientato a Parigi), nel quale i personaggi rimpiangono sempre un passato e incontrano altri che ne rimpiangono uno ancora precedente…
…ma soprattutto erano foto piene di affetto, stima, ammirazione….che arrivavano dritte al cuore dell’osservatore.