Tutti gli articoli di Massimo Santinello

Street…a colori

 

Leonio Berto, “Venice, any colour you like”

Galleria Studio D’Arte, Via Buonarroti 131, Padova

 

Dopo Abano Terme, la mostra di Leonio Berto sbarca a Padova nello spazio espositivo che per la prima volta la galleria Studio D’arte di via Buonarroti “apre” alla fotografia. Forse un segno dei tempi, e dello spazio che con molta difficoltà la fotografia sta acquisendo anche in Italia.

Sicuramente è una conferma della vivacità del gruppo Mignon che da anni propone e sostiene i suoi autori, riuscendo ad attivare anche nuovi spazi espositivi.

Siamo dunque nel territorio della classica street photography, ma, come il titolo segnala a colori. Le foto sono state scattate a Venezia….già il soggetto potrebbe essere, per molti, il motivo sufficiente per non vedere la mostra: quante foto abbiamo già visto di Venezia, delle maschere, gondole, riflessi, ponti? No…. qui non è la città il soggetto principale, o lo è solo in parte, come fondale un po’ sfuocato; certo, in qualche foto (poche) spunta un campanile di S.Marco o una gondola… ma sono elementi dello sfondo utili a giocare di contrasto con il soggetto in primo piano che ci parla di altro.

Il vero soggetto è il fascino della banalità della vita quotidiana, cogliere l’inconsueto che avviene nella strada, gli incontri casuali… Gli scatti sono rubati, l’empatia è quindi lontana….ma il gioco compositivo funziona e le immagini catturano l’attenzione evitando il banale.

E poi i colori….sarà la procedura di stampa utilizzata, saranno le scelte cromatiche dell’autore, ma l’equilibrio e la gradevolezza che si respira è notevole: finalmente si offre spazio anche alla fotografia di strada colorata, che non punta sulle saturazioni estreme dei colori, che ricostruisce una realtà quotidiana più vicina alla nostra esperienza percettiva,  dove i vestiti sono colorati e non toni di grigio.

Si esce con un senso di piacevole leggerezza; una street photography diversa dal solito bianco e nero “difensivo” a cui si ricorre, forse perchè si ritiene che il neorealismo non sia mai finito, oppure che i colori distraggano (da cosa?) e che il bianco e nero faccia più “arte”, o ancora perché i nostalgici della camera oscura (saranno amici degli appassionati del vinile?) hanno esigenze di “controllo” dei processi. Per fortuna, la vita è a colori, “…qualsiasi colore ti piaccia”.

BIANCO E OSCURO

Bianco e oscuro. Storia di panico e di fotografia

Romanzo di Simona Guerra

Edizioni Postcart

L’ultimo romanzo che avevo letto, nel quale la fotografia aveva un ruolo importante era stato quello di Jonathan Coe “La piaggia prima che cada”. Lì un album di fotografie di famiglia è il pretesto e il filo conduttore di un romanzo avvincente. E sul ruolo e l’importanza degli album “di famiglia” nella storia della fotografia e sul loro valore simbolico e identitario ci sarebbe molto da dire; per i più curiosi rimando al contributo che Elisabeth Siegel ha scritto all’interno del primo volume sulla storia della fotografia che sta curando Walter Guadagnini per l’editore Skira.
Qui si tratta di un romanzo davvero particolare: la protagonista (Alma) è un’archivista di fotografia che in seguito alla sempre maggiore difficoltà di controllare i suoi attacchi d’ansia, fa una vita sempre più ritirata, riducendosi a frequentare solo l’archivio per cui lavora e a scambiare sporadicamente messaggi on-line con un fotografo che sta facendo un reportage su un ospedale psichiatrico in Albania.
“…vedo il mondo con gli occhi dei fotografi… ma io sono un’archivista, per mestiere ordino, conservo… “ racconta a un certo punto la protagonista, quasi a contrapporre questo suo lavoro agli attacchi di panico sempre più frequenti e sui quali ha sempre meno controllo.
Il dialogo con il fotografo, attraverso le e-mail procede a tratti, il fotografo racconta della sua stanchezza, il senso di esaurimento ad essere a contatto con persone devastate, abbandonate da un sistema che non ha intenzione di spendere soldi per prendersi cura di malattie difficili da capire.
Su questo crinale, della malattia mentale come lato oscuro della vita, si dipana il romanzo e alla fine il fotografo chiuderà il suo servizio per volare in Argentina a fare altre foto per una Onlus; il romanzo riserva alcuni colpi di scena e si avvia al finale che naturalmente non svelo.
Il linguaggio scorre felice e alle pagine scritte si avvicendano delle fotografie molto belle di Giovanni Marrozzini, scattate nel 2008 in Albania all’interno di un ospedale psichiatrico. L’associazione e la domanda viene spontanea: sarà lui il fotografo di cui si parla nel romanzo?
E davvero la fotografia diventa una sorta di “terapia” in grado di aiutare le persone? L’autrice (tra l’altro nipote di Mario Giacomelli) sostiene essere pura invenzione. Ma, ammette che il panico della protagonista è un’esperienza che anche lei ha vissuto, così come anche lei fa l’archivista.
Le foto di Marrozzini, stampate a colori, anche se in piccolo formato da sole meritano l’acquisto del libro. Ma anche il racconto, a tratti un po’ didascalico, si lascia leggere e in queste giornate di festa, riflessioni sull’anno passato e quello che verrà, può risultare una lettura intrigante.

Buona lettura, Massimo

slideshow

Questa estate, un po’ stanco dei limiti di “Proshow Gold” che io uso abitualmente come programma per i miei slideshow, mi sono scaricato la versione demo di m.objects, che viene indicato in uno dei vecchi numeri di fotoit come “uno dei due programmi che meritano di essere considerati da coloro che intendono fare sul serio…”.
L’impatto non è stato proprio dei più semplici; per cui chiedo se ci sia qualcuno del gruppo fotografico che abbia già familiarità con questo programma e che sia disponibile a condividere qualche indicazione circa il suo uso (i tutorial che ho trovato in youtube sono solo in tedesco).
Non ho idea di Wings ma è decisamente più costoso.
In alternativa se qualcuno fosse interessato si potrebbe organizzare un seminario per familiarizzare con il programma chiamando chi ne cura la distribuzione in Italia. Ho visto che esiste un manuale tradotto (si fa per dire) in italiano e un libro scritto sempre da questa persona. Anche altri circoli fotografici si sono rivolti a lui per organizzare qualcosa di simile.
Massimo Santinello

LA MOSTRA DI BERENGO GARDIN A VENEZIA

La retrospettiva sull’opera di Berengo Gardin ospitata alla Casa dei Tre Oci a Venezia è una occasione per rivedere molte delle immagini note e alcune di quelle meno conosciute del fotografo veneto.
E’ stata una visita che mi ha lasciato un po’ perplesso: forse la scelta dei curatori non rende merito alla grandezza del personaggio. L’impressione è che abbiano assemblato un po’ delle sue foto, di innegabile bellezza, ma che sembrano selezionate solo per mostrare il talento estetico dell’autore, trascurando di enfatizzare di suggerire altre chiavi di lettura delle immagini e della produzione di Berengo Gardin.
Esco spiazzato: se non avessi conosciuto un po’ l’autore (che emozione poter vedere la copia originale di “Morire di classe”, il libro edito da Einaudi, fatto con Carla Cerati su stimolo di Franco Basaglia, così importante in quel dibattito sulla chiusura e il ruolo dei manicomi negli anni ’70) avrei pensato ad una sorta di “turista per caso”, che osserva e scatta; mentre, secondo me è sempre stato un reporter raffinato e appassionato, un testimone interessato a documentare la vita quotidiana.
Ma lo scatto fotografico isola e sceglie: forse, come diceva Benni nella sua introduzione a “Italiani” edita da Federico Motta,”…in queste foto… siamo brutti ma veri… e Gardin ridà agli italiani una faccia…”.
Nella mostra mi pare si perda la parte di indagine sociale, di giornalismo per immagini, quasi a nascondere il timore che l’arte non debba “sporcarsi”. Certo ci sono foto di tutti i periodi e forse qualche commento in più non avrebbe guastato.
Eppure, i fremiti arrivano da allora, da quando un poliziotto lo rincorreva in Piazza S. Marco e lui fotografava Zavattini che partecipava alle lotte “contro una cultura dei padroni”, o le manifestazioni della campagna per il referendum relativo alla legge sul divorzio.
Il linguaggio resta invariato negli anni, testimoniando una limpida e consapevole coerenza con il bianco e nero e l’analogico. Coerenza o rigidità? I confini sono spesso labili e osservando le foto più recenti, per esempio quelle relative a Lucca, solo l’etichetta adesiva è in grado di orientarci nel tempo: è davvero stata scattata pochi anni fa? Se avessimo fatto il gioco di togliere le date dalle foto, avremmo dovuto cercare nelle immagini gli indizi per la loro datazione…il linguaggio è rimasto quello della felice stagione degli anni ‘60 e ’70; i fremiti ora sono quelli di uno splendido ottantatreenne.

La mostra di Migliori

Ci sono personaggi che segnano la storia della fotografia per le loro immagini caratterizzate da un preciso stile, per l’appartenenza o aver fondato un modo di fare fotografia che li rende subito riconoscibili.
Per altri l’immagine fotografica è solo una parte di un processo creativo più ampio nel quale il fotogramma diventa un elemento che non è solo una produzione/interpretazione/riproduzione di una parte della realtà, ma un modo per giocare con la luce, per dilatare i confini del concetto stesso di fotografia. La carta fotografica diventa una tavolozza dove far convergere stimoli luminosi, un elemento con il quale interagire durante il processo di sviluppo, per alterarlo e ottenere effetti ed immagini originali.
Nino Migliori è un artista che è riuscito a coniugare con lucidità e maestria questi due aspetti e la mostra di Bologna, che sintetizza la sua carriera artistica, documenta a grandi linee l’evoluzione del suo percorso creativo nel quale ha messo insieme una straordinaria libertà (e qualche bizzarria) nell’usare le nuove tecnologie che via via si rendevano disponibili e al tempo stesso il tentativo di dialogare su questioni che ruotano intorno al reale/irreale, allo spiazzamento sensoriale, a quello che siamo, al tempo che trascorre e alla morte/natura.
Confesso che conoscevo molto superficialmente la produzione di Migliori, qualche sua immagine in bianco e nero, del periodo del neo realismo (chi non ricorda la foto del ragazzo che si sta tuffando), e qualcuna di quelle realizzate alla fine degli anni ‘60 con le quali metteva insieme i temi “caldi” di quegli anni, tra pacifismo e femminismo e nelle quali dei semplici soldatini giocattolo venivano ripresi sul corpo nudo di una donna.
La mostra ha proposto un itinerario articolato e affascinante e, grazie al contributo e alla vivacità di Migliori (e della moglie che ci ha accompagnato nei tre piani di palazzo Fava, nei quali si dipana l’esposizione), abbiamo potuto capire dalle sue parole come dietro ad ogni opera ci fosse un pensiero, una esplorazione, una ricerca che non era mai fine a se stessa ma il risultato delle riflessioni di un artista che interpretava e anticipava lo spirito del tempo.
Dunque immagini che sono lo specchio dei tempi in cui sono state create, che raccontano del dibattito culturale e delle trasformazioni sociali che la società sta conoscendo, un’arte che non è solo emozione o tecnicismo, un’artista che ha saputo anticipare i tempi coniugando senso estetico e ricerca espressiva giungendo ad una sintesi intensa e contemporaneamente immediatamente percepibile e godibile, come riesce solo ai “grandi” .